Conversazione con il maestro Paolo Uttieri

a cura di alessandro poggiani per agrpress.it


L’appuntamento, ad ingresso libero, è presso il Giardino Bianco Art Space in via G. Garibaldi 1814 in zona Castello (Venezia).

Abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo per comprendere come l’esposizione del Padiglione Grenada sia stata oggetto di riflessione e incontro con la sua peculiare poetica.

 

Maestro, l’avanguardia del Nerismo è finalmente presentata in uno dei Padiglioni presenti alla 59. Biennale di Venezia. Cosa intende affermare con il “Nerismo” e da dove ha origine l’esigenza di fondare tale movimento artistico?

Premetto che considero l’arte come espressione dell’anima, veicolo di messaggi inconsci. Essa è “appetito”, nel senso della sua radice ad-petere, che significa “tendere verso” un qualcosa a volte irraggiungibile per l’uomo perché non percepibile sensorialmente. Con la pittura e quindi con il Nerismo mi auguro in primis di riuscire a superare le barriere interpretative della scrittura che per i suoi schemi sintattici, verbali e grammaticali a volte non riesce a trasmettere sensazioni troppo complesse e profonde. Per conoscere e comprendere nella sua totalità l’essenza del nuovo linguaggio nerista, bisogna capirne l’idea dinamica e tumultuosa che va oltre la facciata dello spazio visibile. Aprendo uno squarcio scopriamo quindi lo scuro, l’ispirato, la sporgente macchina generatrice di tale irrazionale e nuova emozione. Semplicemente se tolgo la luce, forme e colori spariscono, ma essi sono là. Resta visibile solo l’essenza pura delle cose, velata dal nero, che tutto copre ma tutto contiene. Se entro in una camera perfettamente buia, posso essere convinto da altri che essa sia vuota, appena però vi faccio entrare la luce, sia essa naturale che artificiale, tutto il preesistente, come per magia, si rende visibile nelle sue forme e nei suoi molteplici colori. Per analogia, se osservo un quadro in cui predomina il nero, posso pensare che sia solo quello e non vi sia altro. Se però apro la finestra della mia anima e vi faccio uscire la luce mentale, tutto si illuminerà e appariranno stupende immagini. Quindi un’opera nerista venga considerata come un trasmettitore che invia dei messaggi a chi riesce a riceverli. Se l’osservatore non collabora o non ha tali capacità, l’opera resterà come chiusa, non si attiverà, non emetterà alcun’onda. Il Nerismo, con l’uso predominante e inglobante del nero, che tutto ingoia e nasconde, invita l’uomo, concettualmente, a ritrovare l’io originale risvegliando la sua sopita forza spirituale. Apparire, esibire, ostentare, primeggiare, invidiare, ingannare sono tutti quei colori vivaci ed allegri, appartenenti ad un superficiale alfabeto emozionale che il nero, come potente dizionario universale, racchiude in un edificio mentale che trascende le banalità e costringe l’uomo ad una più profonda riflessione e ad uscire dal suo letargo esistenziale. Intrappolando le giocose superfici dei colori, impareremo di fronte all’occhio apparentemente cieco del nero, ad accettare le imperfezioni, a buttar giù dalle loro cattedre le maldicenze, a riconsiderare l’esistenza di confini vertiginosi non più nascosti, a liberare l’io in un concreto mondo spirituale. In una società dove per la maggiore si vive la leggerezza dell’essere, la spensieratezza del sorriso a stampo, dove unica preoccupazione è appiattirsi per non essere diversi, creare un “buco nero”, dove tutta la superficialità sarà risucchiata denunciandola e mettendo a nudo l’essenza, diventa necessità per chi considera la propria arte un’ideologia e non una moda o semplice capriccio intellettuale.

 

La sua produzione artistica si fa costante a partire dal 1985. Il primo periodo di attività si contraddistingue da opere di fattura prima realista e poi surrealista. Cosa l’ha spinta ad abbandonare tali filoni?

Negli anni Ottanta, affascinato dal Realismo, per ottenere effetti sempre più naturali, orientavo ogni mia forma di produzione artistica in tal senso e, fondamentalmente, volevo dare all’osservatore un profondo piacere estetico. Quindi visioni naturalistiche, ricchezza di colori e copiosi studi tecnici sulla teoria delle ombre, sui colori complementari, sulle gamme cromatiche calde e fredde, sui fattori armonici e disarmonici. Numerose opere che però nella loro rigidità espressiva sbilanciarono i miei futuri interessi: volevo cercare una somiglianza più profonda di quella ottenuta dalla semplice immagine quasi fotografica. Mi incuriosì l’impressionismo di Claude Monet, di come l’artista cercava di catturare la luce, volevo cercare una motivazione sul perché Monet usasse il nero quasi nascondendolo ai margini delle figure e quale fosse il motivo per cui Paul Cézanne sovrapponesse tinte pure. La pazzia surrealista di rappresentare immagini strane, quasi sogni, mi prese però in pieno inducendomi a dipingere, in un quadro, tre cavalli inverosimilmente azzurri. In un articolo però, un critico scrisse che richiamavo, a giusta ragione, l’espressionismo tedesco del Blaue Reiter, in particolare nella figura di Franz Marc. Allora, circa quarant’anni fa, compresi che i miei cavalli erano inutili, già proposti e teorizzati in modo magistrale e che io cercavo ben altro. Fu allora che osservando la natura, l’alba e i tramonti in luoghi incontaminati, un giorno fui attratto dalla luce del sole che filtrava attraverso gli alberi, creando ombre tanto forti da materializzare possenti sagome nere. Concettualizzai che in quelle macchie vi fosse l’essenza dell’albero. Erano i primordi sulla teorizzazione del mio “Nerismo”.

 

Lei sostiene che «Il Nero rinasce a nuova vita… conterrà tutte le forme e tutti i colori». Può spiegare meglio questo concetto anche in luce ai due manifesti ufficiali del movimento?

Il nero, da sempre considerato il colore della negazione, del castigo, della notte, del lutto, nel Nerismo rinasce a nuova vita perché viene investito dell’arduo compito di avvolgere, custodire e poi svelare le bellezze immense delle essenze del creato visibili solo a chi riesce ad usare l’occhio interno dell’anima. Come il nero contiene tutti i colori e tutte le forme? Osservando la luce, in natura, qualunque essa sia, normalmente appare bianca. Filtrandola attraverso un prisma essa svela le diverse tinte dell’arcobaleno. Quindi si può immaginare, con fantasia, ma non teorizzare, che nella luce, apparentemente bianca, ci siano fondamentalmente tutti i colori, visibili solo a certe condizioni. In pittura invece avviene l’inverso: partendo dalla mescolanza di tutti i colori, secondo la teoria di cui sopra, si dovrebbe ritornare al bianco, e invece si va verso il nero. Con qualche concessione, si può quindi affermare teoricamente che nel nero ci siano contenuti “fisicamente” tutti i colori, visibili solo con la potenza della luce mentale e da parte di chi ne sarà capace. Lo stesso dicasi per le forme: Michelangelo affermava che la scultura era una forma d’arte che si realizzava “per via di levare”, cioè compito dello scultore era quello di togliere dal blocco di marmo il materiale in eccesso, perché la forma della figura, per quanto bella fosse, era da sempre già contenuta in esso. Allo stesso modo, nella macchia nera sono contenute tutte le forme immaginabili e possibili: sta alle capacità dell’osservatore estrapolarle. Quindi si ribadisce che l’opera d’arte, in ambito nerista, è sempre un discorso a due, fra artista e fruitore. Sarà poi quasi conclusivo il Nerismo Informale, conclusiva la fatidica “macchia nera”, propedeutico invece il Nerismo Figurativo. Quest’ultimo è una preparazione al discorso finale, presentando figure scheletriche, tratteggiate, ma mai a corpo pieno. Cioè immagini che si stanno consumando, erodendo e stanno inesorabilmente scomparendo, lasciando la loro essenza nel globo nero finale. Lo stesso dicasi per i colori slavati, solo di fondo, ma ancora resistenti, impegnati a sopravvivere alle battaglie che si scatenano in ogni opera. Certo scompariranno del tutto ma saranno concettualmente sempre esistenti, anche se intrappolati e nascosti.

 

Il tema del Padiglione Nazionale Grenada è incentrato su identità, integrazione, multietnicità. La sua teoria come si concilia con un’arte che parla linguaggi universali vestendo, talvolta, una tavolozza lirica e vibrante?

Ogni forma d’arte, se tal si vuol definire, non si deve fermare all’apparenza. Se così fosse, per analogia io potrei solo essere accostato esteticamente, per assurdo, a Yves Klein, ma solo perché io fissato col nero e lui con il blu, poi concettualmente due mondi diversi. L’arte è un linguaggio fatto di gesti, manualità, perizia, bravura ma soprattutto è il linguaggio del cuore e della sensibilità. Si va oltre. I Cristiani perseguitati all’epoca romana si riconoscevano attraverso dei simboli che erano la colomba (Spirito Santo), il pavone (Simbolo di rinascita), il pesce (Simbolo di Cristo). Il vero artista si riconosce dallo spessore della propria esistenza, per gran parte spesa per proporre una convinzione, un ideale, una battaglia. È solo allora che l’opera diventa unica ed irripetibile. Lo hanno dimostrato Pollock, Fontana, Burri, Vasarely, Kosuth e tanti altri. Identità, integrazione e multietnicità sono le tre prerogative appartenenti ad ogni vero artista. Importante che dietro l’opera ci sia sempre un’idea, un concetto, una ricerca, una proposta.

Intervista a cura di Erminia Iori

FONTE AGRPRESS.IT